Oh, to vex me…

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Sebbene ci sia una sua poesia che appenderò a capoletto quando….. vabbe’, quando troverò a chi dedicarla (e con chi condividerla), non posso dire che John Donne – così sessista e così sarcastico, ma anche terribilmente dolce nei suoi componimenti d’amore – sia la lettura ideale prima di addormentarmi (che, com’è noto, è il momento in cui "mi vengono in mente le cose migliori": lo canticchiava pure Mao!). Eppure, stamattina presto sono stata folgorata dal ricordo del verso incipitario di uno dei suoi Holy Sonnets, il XIX: si tratta di un verso che in sé sembra costituire un aforisma (che infatti ha subito trovato posto nel sottotitolo di questo blog). Ma voglio ricopiare qui l’intero sonetto, perché Donne parla di me mentre parla di sé!
 
Oh, to vex me, contraryes meete in one:
Inconstancy unnaturally hath begott
A constant habit; that when I would not
I change in vowes, and in devotione.
As humorous is my contritione
As my prophane Love, and as soone forgott:
As ridlingly distemper’d, cold and hott,
As praying, as mute; as infinite, as none.
I durst not view Heaven yesterday; and to day
In prayers, and flattering speaches I court God:
To morrow I quake with true feare of his rod.
So my devout fitts come and go away
Like a fantistique Ague: save that here
Those are my best dayes, when I shake with feare
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