Identikit del puttaniere

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Cercavo nella libreria di casa Il maestro e Margherita, perché convinta che fosse arrivato il suo tempo; ho trovato invece Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda. Ai segni del destino non si abdica… e quindi lo sto leggendo.
Denso di espressioni memorabili (come non citare questa? “Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli.” Fenomenale) o di rappresentazioni icastiche, mi ha colpito, tra le altre cose, per il ritratto del cugino della vittima, Giuliano Valdarena. Dal tratteggio emerge una figura simile in tante sfaccettature ad alcuni uomini che di recente ho incontrato… riporto due passaggi che spiegano meglio di me come son fatte quelle persone.

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Lui, ‘o signorino cuggino, la sua tecnica era quella d’ ‘o svagato: d’ ‘o bel giovane, che ne ha o ne può avere, di donne, fino ‘n coppa a ‘a capa. Ma di certo, poi, dentro di sé, una idea ce la doveva tenere sicuramente. Uno scopo, in cuore, se l’era pure prefisso. Ecco, ecco: voleva che fosse lei a volerlo lui. Ora Ingravallo ci vide chiaro. Voleva essere voluto. Per darsi; ma per lasciarsi cader dall’alto, per vendersi a caro prezzo. Al più alto prezzo possibile. Tirava a far er bello, sicché, a fa lo strafottente. Con tutte. E anche con lei. Già. Pe nun faje torto a lei sola. (cap. III)

Un bel ragazzo, er signorino Giuliano, dellà: piuttosto fortunato co le donne. Piuttosto. Già. Che lo perseguitavano a sciami, a volo radente: e gli precipitavano poi addosso tutte insieme, e in picchiata, come tante mosche sur miele. Lui sapeva puranche fare: ci aveva un bìndolo, uno specchietto a rota, un suo modo così naturale e così strano, ar medesimo tempo… che te le incantava co gnente. Dava a divedere de trascuralle, o di sentirsene magari annoiato: troppe, troppo facili! d’aver sottomano ben altro. Faceva er maschietto tosto, o er tu-mi-stufi, certe volte, o er superbioso; o er signorino de casa de famija scerta der generone de via de li Banchi Vecchi: o l’uomo d’affari, che nun cià tempo de stà a discorre. Siconno. Così. Come je girava. Intonato ar vestito che ciaveva addosso. Come je veniva l’ispirazzione der momento. Siconno si ciaveva sigherette cor bocchino d’oro, o si nun ce l’aveva pe gnente, o si ce l’aveva appena crompe, ma nazzionale che puzzeno. Giocava a fa er cocco. Antre vorte ghiribizzoso come una banderola. Sicché allora le trascurava, ma già! le sore frasche. Era allora propio che loro s’ammattiveno. Si concedeva dopo lungo reluttare o dopo interminato anelare e basire della vittima, strascicandone l’estuoso abbandono o sfibrandone la indocilità renitente mediante una erogazione di pseudo-sintomi (in realtà suggerimenti) alternati a contrasto, a sì e no. M’ama e nun m’ama. Te vojo nun te vojo. E comunque alle predestinate e rare, con arcana delibera elette, si concedeva: come la Salute Eterna in Giansenio. Talora, per contro, in una repentina violenza: e nella totale concussione d’ogni verisimile. Là, propio, dove ognuno aveva voltato altrove l’oroscopio. Zàn! Lasciandosi cadere a piombo alla maniera del nibbio sulla più contumace di tutto il gallinaio: quasi a punirla (o a rimeritarla) con quel fulgurante diavolio: a riscattarla da una debilità recondita nel di lei essere, da una ignomignia… anteriore a quella prelazione magnificatrice. In tal caso la gratitudine della magnificata poteva salire a le stelle: e la paura, o fosse magara la speranza, del bis. (cap II)

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